Archive for the ‘Tipografia’ Category

Breve storia dell’Avant Garde

mercoledì, Gennaio 10th, 2018

avant_gardeArticolo di Duane King
13 Luglio 2013
http://www.thinkingforaliving.org/archives/147

traduzione di Fabrizio M. Rossi

Nel 1964 Lubalin formò la propria società di consulenza sul design, la Herb Lubalin, Inc. Fu in quegli anni che collaborò con Ralph Ginzburg alle riviste “Eros”, “Fact” e “Avant Garde”, lavorando come direttore creativo e designer per queste pubblicazioni. Cinque anni dopo la Herb Lubalin, Inc. divenne LSC, Inc., acquisendo talenti come Ernie Smith, Tom Carnase e Roger Ferriter. Un anno dopo furono aggiunte diverse filiali: Lubalin, Delpire & Cie (Parigi), Lubalin, Maxwell Ltd. (Londra), Good Book Inc. («un’impresa editoriale senza successo”), e Lubalin, Burns & Co., con la sua filiazione tipografica di grande successo, la ITC (International Typeface Corporation).

Lubalin progettò il carattere tipografico Avant Garde per l’ultima di quelle riviste. Il carattere non era originariamente progettato come carattere commerciale: era semplicemente il logo di una rivista. Le forme delle lettere di Lubalin, con i loro stretti avvicinamenti, riflettevano il desiderio di Ginzburg di catturare «l’avanguardista, l’innovativo, il creativo». La forma del carattere era talmente perfetta da creare per la pubblicazione un’identità futuristica, immediatamente riconoscibile. Più tardi Lubalin e Tom Carnase, partner dello studio di design di Lubalin, lavorarono insieme per trasformare l’idea in un vero e proprio carattere tipografico.

«Gli ho chiesto di raffigurare qualcosa di simile a un aeroporto europeo molto moderno e pulito (o come il terminal della TWA), con forti segni in bianco e nero», come ricorda Shoshana, moglie e collaboratrice di Ginzburg; «poi gli ho detto di immaginare un jet che decollava verso il futuro. Ho usato la mia mano per descrivere la diagonale verso l’alto dell’aereo che sale verso il cielo. Mi ha fatto ripetere il gesto più volte. Gli spiegai che i logotipi che ci aveva offerto per questo progetto, fino ad allora, avrebbero potuto essere su qualsiasi rivista, ma che “Avant Garde” (che si sarebbe avventurata in un territorio sconosciuto) con il suo stesso nome era qualcosa che nessuno aveva mai visto prima. Avevamo bisogno di qualcosa di singolare e completamente nuovo».

Secondo Ralph Ginzburg «la mattina dopo, andando in auto dalla sua casa di Woodmere verso il lavoro, Lubalin si fermò sul ciglio della strada e mi telefonò (era la prima volta che lo faceva): “Ralph, ci sono. Vedrai”. Il resto è storia del design».

Dato l’alto numero di richieste per il carattere, Lubalin formò la fonderia di caratteri Lubalin, Burns & Co. (che in seguito divenne l’ITC, International Typeface Corporation) e pubblicò l’ITC Avant Garde nel 1970. Sfortunatamente Lubalin si rese presto conto che Avant Garde era ampiamente frainteso e mal utilizzato, diventando così infine un carattere stereotipo degli anni ‘70 per via del suo uso eccessivo.

Tony DiSpigna, uno dei partner di Lubalin e coautore dei caratteri ITC Lubalin Graph e ITC Serif Gothic, ha dichiarato: «La prima volta che l’Avant Garde venne utilizzato fu una delle poche volte in cui è stato utilizzato correttamente. È diventato il carattere più abusato del mondo». Ed Benguiat, una delle leggende del type design e amico di Lubalin, ha commentato: «L’unico posto in cui l’Avant Garde sembra buono è nella testata di “Avant Garde”. Tutti lo rovinano. Avvicinano le lettere in modo sbagliato». Steven Heller ha anche osservato che «l’eccessivo numero di politipi […] è stato utilizzato in modo improprio dai progettisti che non avevano capito come utilizzare queste forme tipografiche», aggiungendo che «l’Avant Garde era la firma stessa di Lubalin, e nelle sue mani aveva personalità; nelle mani degli altri era un carattere “alla Futura” ma esagerato e imperfetto».

La forza del carattere Avant Garde è certamente nei suoi politipi tutti maiuscoli e dovrebbe essere utilizzato come originariamente previsto: un carattere da titoli con legature che possono essere accuratamente composte in magnifiche combinazioni di lettere. C’erano due progetti originali dell’ITC Avant Garde Gothic: uno per la composizione di titoli e uno per il testo. Il carattere della versione da titoli conteneva politipi e caratteri alternativi mentre il carattere della versione da testo no. Sfortunatamente quando l’ITC Avant Garde Gothic è stato trasformato in un carattere digitale è stato scelto solo il design del carattere da testo, così che i politipi e le lettere alternative non sono stati inclusi, offrendo ai designer l’aspetto meno interessante del carattere.

La tecnologia OpenType ha consentito a ITC di pubblicare una versione completa dell’Avant Garde Gothic, offrendo l’intera gamma di glifi disegnati da Lubalin e Carnase. Pubblicato nel 2005, l’Avant Garde Gothic Pro include una serie di ulteriori maiuscole e minuscole alternative, oltre a nuovi politipi disegnati appositamente per questa versione e una raccolta di caratteri unicase (lettere minuscole con altezza delle maiuscole). Sembra che ci siano ancora, tuttavia, dei politipi non trasformati in digitale e che l’attuale versione OpenType sia ancora priva di quella raffinatezza che il carattere merita. Per approfondire: The Lost Ligatures of Avant Garde e alcune scansioni dei fogli di Letraset d’epoca con la versione dell’Avant Garde per i caratteri ‘trasferibili’ (a secco).

Indubbiamente avrò sempre un debole per la rivista “Avant Garde” visto che, nel corso degli anni, ne ho pian piano raccolto ogni numero. Sono ancora affascinato dal carattere omonimo e non posso giurare di averlo sperimentato completamente, ma l’esperienza m’ha dimostrato che funziona davvero solo in combinazioni accuratamente elaborate che bilàncino l’esigenza di un avvicinamento serrato delle lettere con la leggibilità. È quanto di meglio ci sia stato lasciato da un maestro come Herb Lubalin. Forse un piccolo approfondimento sulla storia del carattere tipografico aiuterà altri ad avere successo nell’usarlo nei loro progetti. Come G.I. Joe ha sempre detto, «la conoscenza è metà della battaglia.»

Bibliografia

• Meggs, Philip, Two Magazines of the Turbulent ‘60s: a ‘90s Perspective, “Print 48” (Mar-Apr 1994): 68-77.
• Heller, Steven, Herb Lubalin: Type Basher, “U&lc” 25 (Summer 1998): 8-11.
• Heller, Steven Crimes Against Typography, AIGA: “AIGA Journal of Design”. 4 Agosto 2004.
• Berry, John D., Avant Garde, Then and Now, “Creative Pro: dot-font”. 4 Maggio 2003.
• White, Alex, Alex White on Herb Lubalin’s Avant Garde, in 1977 Hall of Fame “The Art Directors Club: 1977 Hall of Fame”.

NOTO font: NO (more) TOfu, please!

domenica, Febbraio 12th, 2017

Noto è l’acronimo per ‘NO TOfu’, e per ‘tofu’ non s’intende qui letteralmente la simpatica pietanza che sa di quel che la condisce, bensì quei fastidiosi rettangolini, simili appunto a pezzetti di tofu, che appaiono quando mancano determinati glifi nel carattere che stiamo usando. Ciò avviene quando inseriamo nel nostro contesto abituale di scrittura digitale parole appartenenti ad altri contesti: per fare un esempio a noi geograficamente vicino, parole scritte in greco in un contesto di scrittura latina. Una situazione frustrante. Per superare questo problema è necessario, evidentemente, usare un carattere che comprenda quegli insiemi di segni di cui prevediamo di aver bisogno. Ma se avessimo bisogno di comporre testi multilinguistici in più e più sistemi di scrittura?
Google e Monotype
Per porre rimedio a questo problema Google affidò nel 2011 alla Monotype – storico nome della tipografia – la realizzazione di un ‘carattere poliglotta’ che risolvesse questo problema non di poco conto. Al progetto hanno collaborato centinaia di consulenti, specializzati nelle singole problematiche linguistiche e tipografiche. Un esempio fra tutti: la font Noto per il tibetano è stata ‘costruita’ a partire dagli esempi manoscritti conservati nei monasteri. In alcuni casi si tratta, infine, del primo carattere digitale mai realizzato per una comunità linguistica.
Gli obiettivi e la strategia di Google
Il risultato, pubblicato a partire dal 2013 e tuttora in evoluzione, è per l’appunto Noto, un insieme di font capace di far fronte alle esigenze di restituzione tipografica dei 93 sistemi di scrittura dei 135 riconosciuti dall’Unicode Consortium (2016), per un totale di circa 800 lingue. L’obiettivo è quello di arrivare a coprire tutti i sistemi di scrittura Unicode. Non solo: Noto è in grado di restituire digitalmente sistemi di scrittura non più corrispondenti a lingue parlate, come per esempio il fenicio, il lineare B (cretese-minoico, XIV-XII sec. a.C.), l’ogham (Irlanda, I-VI sec.).
Google dichiara che «Noto is Google’s font family that aims to support all the world’s languages. Its design goal is to achieve visual harmonization across languages». Dunque, l’obiettivo del suo progetto è raggiungere l’armonizzazione visiva fra le lingue: obiettivo assai pratico, quando si tratta di testi con molti e diversi sistemi di scrittura e linguistici, come si diceva, e complessivamente raggiunto. Dalle opinioni di utenti che utilizzano sistemi di scrittura e lingue diverse si ricava nell’insieme un buon giudizio quanto a funzionalità linguistica, salvo qualche rara eccezione qua e là che purtroppo non sono in grado di verificare. Vedremo in breve più avanti quale sia il livello formale raggiunto da questa famiglia di caratteri.
Insomma: «Noto è un progetto in linea con la strategia di Google che mira a raggiungere tutti i luoghi del mondo e rendere noti i suoi servizi anche a chi vive nei posti più remoti, la stessa per cui Google nel 2016 ha allargato il suo servizio di traduzione automatica a 100 lingue» (fonte: ilpost.it), coprendo nominalmente il 99% della popolazione mondiale online (fonte: techcrunch.com). Con risultati migliori nelle traduzioni, ci auguriamo, di quelli talvolta involontariamente esilaranti a cui siamo stati abituati finora.
Com’è fatto Noto
La famiglia Noto comprende una variante con grazie (Noto serif) e una senza grazie (Noto sans) – ‘conviventi’ soltanto per i sistemi di scrittura più diffusi: 95 infatti sono le font senza grazie e 13 con grazie (ott. 2016); ma anche in questo caso l’obiettivo è di far crescere il progetto, aumentando il numero dei sistemi di scrittura che dispongano anche del Noto serif. Entrambe le varianti hanno due pesi (normale e bold) e due forme (tondo e corsivo).
Per dare un’idea della mole impressionante di glifi progettati per il Noto, soltanto la font dell’alfabeto latino comprende circa 3.300 glifi per ogni variante.
Particolare interessante: Noto è pubblicato con una licenza OFL (Open Font License), dunque utilizzabile liberamente in qualsiasi ambiente, su qualsiasi dispositivo e per qualsiasi scopo.
sp-720 (1)sp-720

 

È un carattere passepartout, con un occhio medio piuttosto alto e aperture ampie, che si adatta abbastanza bene a una gamma estesa di dispositivi. Difficile però aver tutto nella vita: quel che guadagna in leggibilità, soprattutto sugli schermi, lo perde in eleganza e personalità, particolarmente a stampa. Insomma, un leggero sapore/insapore di tofu resta in bocca, malgrado tutto.
notosans-notoserif
La versione serif, con grazie squadrate, raccordi curvilinei e moderato contrasto, ha un aspetto leggermente più stretto della versione sans. Questo nonostante la metrica delle due versioni sia simile, come vediamo nell’esempio comparativo.


Conclusione (temporanea)
Evidentemente Google può permettersi un simile sforzo titanico, con un risultato per giunta messo a disposizione gratuitamente, pur di raggiungere i propri obiettivi. Detto ciò, il progetto è impressionante e può contribuire a salvaguardare (digitalmente, si badi bene) sistemi di scrittura (dunque patrimoni linguistici e culturali) altrimenti marginalizzati o condannati alla scomparsa.

Fabrizio M. Rossi


 

Per scaricare Noto:
https://www.google.com/get/noto/

 

Creating Noto for Google from Monotype on Vimeo.

Il pangramma è un animale…

giovedì, Dicembre 31st, 2015
Immagine di Inu Yasha Cooper

Immagine di Inu Yasha Cooper

…che se morde non fa male.
“Pangramma”, dal (solito) greco: “tutti i segni”. Ovvero, una frase “oloalfabetica”: che contiene tutte le lettere di un “intero alfabeto” (ancora il greco…) almeno una volta e che, preferibilmente, sia una frase di senso compiuto, senza sigle. Utilissimo, il pangramma, ai progettisti di caratteri, e in generale ai tipomaniaci, per mettere alla prova un carattere.
Così per l’inglese abbiamo il classico pangramma «The quick brown fox jumps over the lazy dog». Per il francese, «Portez ce vieux whisky au juge blond qui fume» («portate questo vecchio whisky al giudice biondo che fuma»), pangramma che ha il pregio di mostrare le consonanti una sola volta e di essere, per giunta, un verso alessandrino. Per l’italiano, «Quel fez sghembo copre davanti» (26 lettere anziché 21), o l’adattamento del pangramma inglese già citato: «Fu questa volpe a ghermir d’un balzo il cane» (35 lettere e un apostrofo; cfr. http://www.onicedesign.it/2009/04/vituperabili-whiskey/), o ancor meglio «Pranzo d’acqua fa volti sghembi», di Giampaolo Dossena (26 lettere e un apostrofo. In La zia era assatanata. Primi giochi di parole per poeti e folle solitarie, Milano, Rizzoli, 1990). Personalmente trovo di senso compiuto anche quest’ultimo pangramma: un pranzo a base d’acqua non può che far storcere il muso, ovvero «far volti sghembi»…
Ma il problema che affascina i cultori della tipografia, della linguistica e dell’enigmistica è quello di arrivare al “pangramma perfetto”, ossia al pangramma che mostri ogni lettera di un alfabeto una sola volta e, come dicevo, sia di senso compiuto, senza sigle. Impresa non facile. In italiano e in francese non ne ho ancora trovati. E, a rigore, sia per l’italiano sia per il francese il pangramma perfetto dovrebbe mostrare anche tutte le lettere accentate, ma qui sconfiniamo nella follia. Per l’inglese, che di accenti non ne ha, ce n’è uno, che sottopongo alla vostra attenzione in tutta la sua complessità:
«Cwm fjord bank glyphs vext quiz».
Le lettere dell’alfabeto inglese ci sono tutte, una sola volta e senza sigle. E il senso compiuto? Il dibattito è aperto, ma ecco un contributo interessante di Martin Putnam (26/3/1997):

«Dear Peter Hartley, I write in defense of the pangram (or “holoalphabetic sentence”) on the subject line.
You say:
> Cwm fjord bank glyphs vex’t quiz.
> A cwm (Welsh word) is a geological term for something that may well be found on the bank of a fjord; “vex’t” for “vexed” is
> definitely cheating though.
I’m not sure that it is cheating, nor am I sure that “vex’t” needs an apostrophe. Consider
“And that same night, the night of the new year,
By reason of the bitterness and grief
That vext his mother, all before his time
Was Arthur born…”
(Tennyson, Idylls of the King, “The Coming of Arthur”)
Is this not English? This very poem is, after all, one of the authorities relied upon by the editors of the Oxford English Dictionary to establish standard usage (see OED Index), although they don’t happen to quote the above-cited passage in the articles on “vex” and “vexed”. See those articles for various uses of “vext” and “vex’t,” however. Tennyson again:
“Glad that no phantom vext me more, return’d
To whence I came, the gate of Arthur’s”».

Tutto chiaro? In buona sostanza, Putnam sostiene che “vext” non sia affatto “un imbroglio linguistico” e che vada inoltre scritto senza apostrofo, citando l’autorità indiscussa di Tennyson a sostegno di ciò. Il pangramma sarebbe dunque da ritenersi perfetto, e per giunta con un rimando semantico alla tipografia: si parla di misteriosi “glifi” in una formazione geologica sulla sponda di un fiordo…
In ogni caso, per noi tipomaniaci questo pangramma è ottimo, come abbiamo sperimentato durante il corso di Type design dell’AANT.

L’immagine di apertura è reperibile qui: http://inuyashacooper.deviantart.com/art/The-Quick-Brown-Fox-Jumps-Over-The-Lazy-Dog-353119526

Mostra «Design resistente»

giovedì, Marzo 26th, 2015

invito_DR

36 designer per 36 progetti sulla libertà e la memoria.

Questa la consistenza della mostra «Design resistente», dal 14 aprile allo spazio MIL di Sesto San Giovanni. Il giorno dell’inaugurazione si arricchirà anche di un laboratorio di stampa a caratteri mobili, «Lettere molto resistenti».

Per info: Spazio MIL
via Granelli, 1 – Sesto San Giovanni (Mi)
tel. 02 36682271 info@spaziomil.org

Nuovo sito Ikona & IkonaLíber

sabato, Novembre 22nd, 2014

Nuovo sito dello studio grafico Ikona e delle edizioni IkonaLíber, completamente rinnovato. Nuovo nell’aspetto e nei contenuti. In poche parole, “chi siamo” e “che cosa facciamo”: progetti grafici e dei contenuti, progetti tipografici, fotografia e ricerche iconografiche, formazione. Uno spazio speciale è dedicato alle edizioni IkonaLíber, con il catalogo completo dei libri su carta e degli e-book. Buona navigazione!

Laboratorio «Smontiamo un libro!»

mercoledì, Novembre 19th, 2014

Sabato 15 e domenica 16 novembre si è svolto a L’Aquila il laboratorio «Smontiamo un libro!» condotto da Fabrizio M. Rossi.
Il laboratorio, rivolto agli insegnanti delle scuole primarie e secondarie (e a chiunque fosse curioso di sapere ‘come è fatto’ un libro di testo), si è tenuto nella biblioteca per ragazzi “La tana di Lupoleone” di Pettino (Aq) ed è stato organizzato da “Libris in fabula”, associazione culturale di volontariato di L’Aquila.
FMR: «Abbiamo lavorato insieme su un libro di testo per le superiori realizzato dal mio studio: com’è nato il progetto, su quali contenuti abbiamo lavorato, quali sono state le fasi principali dello sviluppo. Abbiamo ‘smontato’ l’intera struttura del libro, sia fisica (carta, stampa, confezione…) sia logico-visiva (l’organizzazione e la rappresentazione dei contenuti). Abbiamo messo a nudo i ragionamenti e le consuetudini che determinano l’aspetto di un libro di testo, con particolare attenzione alla scelta dei caratteri, soffermandoci sulla loro storia e su tutto il repertorio di segni che ci mettono a disposizione. Infine, abbiamo sperimentato insieme una tecnica di lettering per scoprire il legame tra la tipografia e il gesto manuale della scrittura».

Info
Libris in fabula
Via Giovanni Falcone, 23 – 67100 L’Aquila
tel. 0862 361084 email librisinfabula@gmail.com
Ikona
via Lago di Lesina, 15 – 00199 Roma
tel. 06 86329653 email informazioni@ikona.net

Fontshop acquisita dalla Monotype

lunedì, Luglio 21st, 2014

Mercoledì 16 luglio 2014 la newsletter di Fontshop annuncia in questi termini che la fonderia statunitense Monotype ha acquisito FontShop e la biblioteca di caratteri FontFont:

«First things first. Yesterday was a groundbreaking day in FontShop’s 25 year history, the most important one since our formation. The US typeface company Monotype announced that they have acquired FontShop and the FontFont library. The acquisition package includes the head office in Berlin as well as the FontFont typeface library, the US subsidiary in San Francisco (fontshop.com), and the German distributor, FontShop AG. Monotype acquires the FontFonts of founder Erik Spiekermann directly from him, including all usage and publication rights. All of his bestsellers (FF Meta, FF Info, FF Unit, FF Govan) will remain part of the FontFont library. Spiekermann will assist Monotype as typographical consultant in the future. You can read more on this news over at The FontFeed or in a detailed press release».

La reazione su internet non si fa attendere: la maggior parte dei commenti paventano una perdita d’indipendenza della fonderia digitale creata nel 1990 a Berlino da Erik Spiekermann e Neville Brody.

Lo stesso giorno su “The FontFeed” viene pubblicata una dichiarazione di Jürgen Siebert, chifel Marketing Officer di FontShop AG: FontFont Has Never Been More Independent. Sin dal titolo Siebert rivendica la “scelta” operata, sostenendo che mai come ora FontFont sarà così indipendente, «traendo benefici dalla rete di vendita e dalle capacità di marketing della Monotype» e mantenendo intatte le prerogative di indipendenza di FontFont che si concretizzano, secondo Siebert, nei contratti “equi” con i designer (parole chiave: royalties e protezione intellettuale) e nell’indipendenza del TypeBoard, la commissione di FontFont che sceglie i caratteri da pubblicare.

E Spiekermann che cosa dice? Vedremo gli sviluppi. A mio avviso l’acquisizione di FontFont da parte di Monotype sancisce, in ogni caso, la fine di un’epoca e impone nuove e profonde riflessioni sul disegno e la commercializzazione oggi dei caratteri.

Nuovi caratteri, nuova “Repubblica”?

sabato, Aprile 12th, 2014

Giovedì 27 marzo 2014 il quotidiano “la Repubblica”, nella sua versione su carta, si presenta in edicola con una “copertina” dal titolo: «È un nuovo inizio» [foto 1]. All’interno della copertina troviamo un’interessante raccolta di prime pagine storiche del quotidiano – dalla sua fondazione nel 1976 ai nostri giorni – accompagnata da una nota di Ezio Mauro. Il direttore illustra i motivi che hanno spinto il quotidiano a elaborare una nuova veste grafica, affidandola all’art director Angelo Rinaldi. Alla base di questo cambiamento vi è la presa d’atto di una necessaria differenziazione dei contenuti destinati alla stampa – notizie “consolidate” e approfondimenti – dai contenuti caratteristici della rete, in continuo aggiornamento e perlopiù di libera disponibilità. Presa d’atto giusta, benché – a mio avviso – vagamente tardiva; ma, com’è noto, Roma non è stata fatta in un giorno, e un progetto grafico per un importante quotidiano non è cosa da poco: Mauro stesso ci informa che “la Repubblica” è il primo in Italia per diffusione, in entrambe le sue versioni.

Non mi soffermerò sul progetto grafico generale, limitandomi a rilevare una diffusa (e lussuosa) presenza di spazi bianchi – di “aria che circola” fra i testi e le immagini – che ben si addice alle intenzioni dichiarate di creare uno spazio di riflessione, di approfondimento e non di affollamento [foto 2].

Vorrei invece esaminare le scelte tipografiche di questo ridisegno, che già hanno suscitato “rumori e malumori” fra chi si occupa di queste vicende.

Il punto più critico è il carattere scelto per i titoli [foto 3]: il Cheltenham, nella versione della fonderia ITC (Tony Stan, 1978). È uno dei molti ridisegni dello storico carattere realizzato da Bertram Grosvenor Goodhue (1869-1924), architetto e tipografo influenzato dai caratteri della Kelmscott Press disegnati da Edward Burne-Jones. Goodhue lo progetta verso il 1896 per l’editoria (Cheltenham Press di New York), tuttavia il Cheltenham ottiene la sua maggior diffusione (almeno fino agli anni Trenta del Novecento) nei lavori commerciali. Il suo successo “di pubblico” non coinciderà però, sin dall’inizio, con un successo “di critica”. Verrà commercializzato prima dall’ATF nel 1902/1903, poi dalla Linotype e successivamente in almeno due dozzine di varianti. Viene considerato uno dei caratteri “americani per eccellenza”, chiamato in gergo d’oltreoceano Chelt (essendo Cheltenham, evidentemente, troppo lungo e troppo british).

Al di là dei dati storici – peraltro interessanti per comprendere la scelta (penserei a un omaggio al giornalismo americano) – vediamo in breve gli aspetti formali dell’ITC Cheltenham che sono essenziali per comprenderne la criticità in questo progetto.

È un carattere “nuovo transizionale” (usando i criteri classificatori di Blackwell) che presenta un occhio medio alto e tratti ascendenti più lunghi dei discendenti. Le sue controforme sono, dunque, manifestamente ampie.

Ora, è nozione diffusa e condivisa che lo spazio interno di un carattere determini lo spazio esterno a esso (si veda al riguardo quel che dice Mike Parker nel film Helvetica, solo per fare un esempio e rendere omaggio al tipografo scomparso il 23 febbraio scorso). Notiamo invece nei titoli (e sottotitoli) della nuova “Repubblica” un uso intenso e diffuso dell’avvicinamento fra i caratteri (tracking e kerning negativi), spesso a dispetto dello spazio disponibile. L’effetto è quello di “n’ammucchiata”, come ha avuto a dire una studentessa romana. Qui sí che c’è affollamento.

Delle due l’una: o sono sbagliati gli avvicinamenti rispetto al carattere, o è sbagliato il carattere rispetto al progetto.
Ma direi entrambe le cose, visto che l’esigenza di spazio sulla pagina mi sembra vitale per il progetto.

Sarebbe fondamentale conoscere i motivi delle scelte tipografiche di Rinaldi, tenendo conto del fatto che un progetto di comunicazione visiva (molto semplice o molto complesso, come in questo caso) è sempre frutto dell’incontro/scontro/mediazione fra le parti: fatto di non poco conto, a cui si aggiungono eventuali travisamenti o forzature nell’applicazione “sul campo”.

Aggiungiamo la presenza di un carattere “egiziano” [foto 4] nel corpo degli articoli (sembra che sia un Egyptian 505, ma la stampa lo deforma), anch’esso con occhio medio ampio e anch’esso sottoposto spesso ad avvicinamenti forzati, oltre che a corpi miseri, nemici dei presbiti (giovanilismo?). Per finire, balza agli occhi un “neogrottesco” nelle didascalie delle foto, sovente in corpo maggiore rispetto a quello degli articoli.

Insomma: francamente, sul lato della tipografia, un’occasione mancata, per il quotidiano italiano più diffuso. Perché non investire (e sottolineo: investire) in una serie di caratteri appositamente disegnati? Mancanza di sensibilità tipografica, forse?

A beneficio degli studenti italiani di tipografia – che sudano sette camicie per apprendere una disciplina dura e spietata e partecipano con impegno al suo rinascimento nella terra dei cachi – c’è da dire che non esiste soltanto il caso del gruppo francese “Le Monde” che, nel 1994, fu spinto a commissionare a Jean-François Porchez la ben nota serie di caratteri che porta il nome del quotidiano transalpino. Ebbene, udite udite: anche in Italia si son fatte operazioni simili, parlando solo del passato più recente: penso ai caratteri disegnati per il “Sole 24 ore” (Sole serif, Luciano Perondi, 2010), per il “Corriere della sera” (Solferino e Brera, Luciano Perondi e LeftLoft/Andrea Braccaloni, 2007) o per “L’Espresso” (GFT Lespresso Sans Bold e Regular, Gio’ Fuga, 2007). Certo, sarebbe anche interessante vedere quale uso, nel tempo, è stato fatto dai committenti di tali caratteri (non escluso il caso di “Le Monde”), ma questa è un’altra storia.

Quindi, non demoralizziamoci: confidiamo in nuove splendide occasioni per i progettisti italiani di caratteri.
E, soprattutto, non sarà il caso della “Repubblica” a farci emigrare, vero?
Fabrizio M. Rossi

Foto_01: il titolo della “copertina”.

Foto_02: lo spazio sulla pagina.

Foto_03: titolo e sottotitolo.

Foto_04: il corpo del testo.

Tipografia espressiva: Ahn Sang-Soo

domenica, Marzo 23rd, 2014

«La figura del coreano Sang-Soo si staglia sia per la qualità del suo lavoro, sia per il modo che gli è proprio di porsi nei confronti dell’altro, sia ancora per la sua capacità di comunicare le proprie idee e le proprie invenzioni grafiche e tipografiche». Cosí scrivevo in un mio reportage sui Rencontres Internationales de Lure [in “Progetto grafico” n. 7, ripubblicato in Diario tipografico. Incontri, caratteri, libri, IkonaLíber, 2013]. In quell’occasione avevo avuto la fortuna di incontrare e intervistare molte personalità importanti della tipografia e della comunicazione visiva, tra cui Ahn Sang-Soo, che presentava il suo lavoro tipografico sul sistema coreano di scrittura alfabetica. Allora come ora ama farsi fotografare con una mano sull’occhio, e cosí chiede di poter fotografare gli altri, in una posa che certamente contribuisce a distendere l’atmosfera e a creare un clima ironico e surreale. Ora come allora riprendo alcuni versi citati a Lure dal maestro coreano:
«Once upon a time/words were stars/When they took meaning/they falled to the earth»
(Un tempo le parole erano stelle. Quando acquistarono significato, caddero sulla terra)

da http://creativeroots.org/2010/03/ahn-sang-soo/

Da http://creativeroots.org/2010/03/ahn-sang-soo/

Da http://creativeroots.org/2010/03/ahn-sang-soo/

Da http://creativeroots.org/2010/03/ahn-sang-soo/

Da http://creativeroots.org/2010/03/ahn-sang-soo/

Da http://creativeroots.org/2010/03/ahn-sang-soo/

Tipografia espressiva: Cavan Huang

martedì, Febbraio 25th, 2014

Cavan Huang è nato nel 1977 a Toronto, Canada. Ha studiato urbanistica alla McGill University di Montréal e graphic design alla Rhode Island School of Design. Ha lavorato per sei anni alla Time Warner. È direttore creativo associato di Interbrand (New York). Suoi lavori sono stati pubblicati su Contemporary Graphic Design, CMYK Magazine, AdAge Magazine.

Nei suoi lavori, come per esempio gli Harlem Documents (segnalati da Alessandro Bigardi, che ringrazio) è presente una duplice attenzione nei confronti sia della tipografia sia dei contesti urbani.