Traduciamo e pubblichiamo quest’articolo di Hervé Le Crosnier (Caen, 1 agosto 2010) sulle recenti dichiarazioni del Presidente della Repubblica francese, secondo cui una condanna penale potrebbe comportare la perdita della nazionalità: se Atene piange, Sparta non ride.
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Le dichiarazioni di Nicolas Sarkozy a Grenoble, rafforzate da quelle di Brice Hortefeux sulla gestione “di sicurezza” della nazionalità pongono evidenti problemi di costituzionalità ma ci impongono di riflettere immediatamente su almeno due punti: innanzitutto sulla necessità di riprendere il filo storico che fa sì che la situazione attuale puzzi di fine anni Trenta, poco prima dell’abiezione totale; poi sul dover comprendere quel che rende possibile questa deriva e, in particolare, cercare nelle pratiche delle opposizioni gli atteggiamenti che lasciano aperte le porte ad una simile situazione.
La “nazionalità” è un accordo convenzionale, non esiste “naturalmente”. Uno stato colonizzatore come la Francia lo sa bene, avendo “ritagliato” il mondo con frontiere “nazionali” al di fuori di ogni storia comune o di ogni progetto condiviso. La Francia è essa stessa uno Stato costruito grazie all’aver messo sotto tutela popoli all’interno delle sue stesse frontiere (bretoni, baschi, corsi, occitani…) in nome di un progetto “nazionale” e “repubblicano”. Essere francesi è una convenzione che è cambiata nel tempo e che cambierà ancora (ci definiremo forse europei tra un secolo?). Questa convenzione assoggetta gli individui alla nazione di cui essi sono membri. A lungo la coscrizione militare ne è stata simbolo. Una volta accordata la nazionalità per nascita (diritto del suolo), per filiazione (diritto del sangue) o per naturalizzazione, i diritti e i doveri sono gli stessi per tutti. Ammettere la “doppia ammenda” d’una condanna penale seguita da una perdita di nazionalità significa denigrare il funzionamento globale della giustizia: le pene comminate non sarebbero forse sufficienti, non sarebbero ‘giuste ed equilibrate” al punto che l’autorità amministrativa debba aggiungervene altre in modo arbitrario?
Ma, ancor peggio, ci sarebbe dunque un’anteriorità alla condizione convenzionale della nazionalità? Quante generazioni saranno considerate passibili del ritiro della nazionalità e sistemate in campi “di transito”? Quelli che non percepiscono in questo gli orrori degli ani Trenta hanno le orecchie ben turate: l’espressione “quarto di giudeo” non dice loro nulla?
Gli effetti dei discorsi della cricca al potere non possono giudicarsi nel breve termine. Quando Marine Le Pen esprime la propria soddisfazione al riguardo e vi vede la conferma delle proprie tesi, bisogna comprendere la deriva collettiva che ciò pone in atto. I razzisti al potere, anche dopo una condanna giudiziaria come nel caso di Brice Hortefeux, preparano un avvenire che non ha nulla di repubblicano e tutto di un’organizzazione del mondo per clan. Il sospetto si instaura e, invece di pensare la nazione come un progetto collettivo, la si va a definire come una zona protetta, ad immagine e somiglianza di quei condominii per ricchi irti di filo spinato e protetti da guardie armate, così da creare una sorta di “pelle di leopardo” su tutto il pianeta.
Evidentemente questa tendenza non è limitata alla Francia, purtroppo. Numerosi paesi vogliono decidere arbitrariamente la nazionalità. È l’essere “avoriano” nella Costa d’Avorio, è lo status differente degli ebrei e degli “arabi israeliani”, è il dibattito sui “chicanos”, è la questione lombarda in Italia… Il mondo globalizzato sta rimpiazzando i conflitti geopolitici con forme interne di etnicizzazione e di gerarchizzazione. Si sarebbe potuto credere abbandonata questa logica dopo il Secolo dei Lumi. L’esempio della Germania degli anni Trenta – sebbene fosse uno tra i paesi più ricchi di filosofi, poeti, musicisti, pensatori – avrebbe potuto illuminarci sul pericolo permanente di un ritorno alla barbarie.
Ma non arrivo ad arrendermi a vedere la Francia “dei Diritti dell’Uomo” – quella che si raffigura ad un tempo come un paradiso (grazie alla sua protezione sociale) e come un punto di riferimento nella capacità di rivolta e di rifiuto dell’arbitrio (la presa della Bastiglia) – sprofondare a sua volta nella follia razzista, con tutte le conseguenze sulla fine dello “stato di diritto” che annuncia il diffondersi di nuove guerre “asimmetriche” contro le popolazioni più inermi. I segni sono tuttavia chiari, dopo l’adozione dello “stato d’urgenza” nel novembre 2005, le retate all’uscita dalle scuole di ragazzini figli di “sans papiers”, il caso della “giungla” di Calais e le rodomontate dei ministri sulla nazionale di calcio…
Cos’è che rende possibile una simile abiezione, dal momento che sappiamo bene che ogni piccola affermazione non fa che preparare la successiva, in una spirale regressiva senza fine? Ecco la seconda domanda, più importante ancora per l’avvenire e, soprattutto, ecco la domanda che si pone a chiunque abbia a cuore la giustizia, l’uguaglianza e la fratellanza: cosa abbiamo lasciato fare? Cosa ancora stiamo lasciando fare?
I discorsi dei potenti ci mostrano le nostre debolezze. Rappresentando il “maggio ‘68” come fonte della delinquenza, dei problemi della scuola, del rapporto fra genitori e figli, accusando i cittadini preoccupati per la libertà, per il dibattito democratico, per la generosità, essi ci dicono in realtà che abbiamo lasciato dilapidare il potenziale libertario scaturito dall’ultima grande rivolta francese. Situandosi su questo versante ideologico e culturale, questi discorsi evitano di porre la questione dei rapporti di forza propriamente economici che conducono più del 10% della popolazione alla disoccupazione, che riducono le prestazioni di assistenza sociale e sanitaria, che marginalizzano i quartieri poveri per mancanza di fondi per la ricostruzione e la pianificazione, per mancanza di personale per assicurare il “servizio al pubblico”… perché la nostra focalizzazione sui cambiamenti “morali”, sulle questioni “societarie” ha permesso che si installi un modello economico di dominazione che ci conduce alla situazione attuale. Delinquenza, insicurezza, da una parte; autoritarismo e razzismo, dall’altra, sono le due mammelle della società neoliberale. L’accettazione, da parte del partito socialista, della globalizzazione neoliberale – fino a vedere due dei suoi dirigenti eminenti collocati alla testa uno dell’FMI, l’altro dell’OMC, i due organismi più significativi del nuovo ordine economico mondiale – è certamente una svolta fondamentale in questa breve traiettoria storica. Ma il nostro abbandono della costruzione di un’autentica forza sociale, culturale e politica in nome dell’“è sempre meglio che niente” è altrettanto colpevole.
Quando siamo consapevoli dell’evoluzione terribile del mondo e vediamo il nostro universo politico dilaniato, incapace di riunirsi sui punti fondamentali; quando vediamo i dirigenti delle cellule di partito, la cui sola speranza burocratica è superare lo sbarramento del 5%, pavoneggiarsi aggrappati alle loro “verità” come patelle sullo scoglio per resistere alla marea; quando assistiamo allo sbandamento delle organizzazioni di azione sociale incapaci di comprendere la posta in gioco della lotta contro la disoccupazione, l’organizzazione dei quartieri, la rivolta dei giovani senza speranza… non siamo noi stessi complici “per astensione” della deriva in atto?
Non è mai troppo tardi. Ma sarebbe meglio che noi decidessimo il più presto possibile di tornare sulla scena politica a partire dalle esperienze dei movimenti sociali, a partire dalle riflessioni polifoniche delle diverse correnti della sinistra critica e delle associazioni sociali. Lasciare ancora le decisioni ad altri che hanno già mostrato l’estensione della loro incapacità a formare un fronte sufficientemente forte contro la dominazione autoritaria che accompagna il neoliberalismo sarebbe piegarsi di nuovo di fronte al bulldozer razzista. La concezione di una società di lupi in guerra permanente tutti contro tutti è il modello maggioritario, tanto nei film hollywoodiani quanto per i dirigenti della nostra destra revanscistica e animata dall’odio. Non lasciamo che prenda piede. Riprendiamo la battaglia culturale e ideologica sul fronte politico.
In fondo il futuro appartiene ai sostenitori della libertà, dell’uguaglianza e della fratellanza, ma sarebbe meglio che non si avverasse dopo una crisi umana e morale così grande. Fin da ora bisogna correggere la rotta. Sta a voi farlo, voi che avete avuto il coraggio di leggere fino a qui. Che ciascuno trovi il proprio cammino ma soprattutto ritorni alla discussione, allo scambio, a mettersi in gioco sulla scena pubblica. Troviamo nuove forme d’organizzazione in rete, di accordo e di coordinamento, ma soprattutto non restiamo paralizzati dall’arroganza di chi ci governa.
Traduzione di Fabrizio M. Rossi